Flavio Loddo

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LODDO FLAVIO.

Mi chiamo Flavio Loddo, sono nato a Monserrato il 29.11.1923, mio padre si chiamava Severino e mia madre Angela Serri. Sono il cugino di Padre Silvio Serri, missionario Comboniano, 10 anni più piccolo di me, trucidato in Uganda nel settembre 1979. Non sempre parlo volentieri delle mie esperienze da militare perché capita talvolta di non essere creduto o dicono che esagero e questo mi urta e allora non parlo e non dico più niente.

Della mia infanzia porto il ricordo di tanta povertà e di molti compagni delle elementari che venivano a scuola scalzi. Le classi erano numerose, arrivavano a trenta e più alunni. Frequentavo la scuola in piazza Maria Vergine e c’erano solo sezioni uniche, una prima, una seconda, etc. Poi c’era anche la sezione della Tracoma, per chi soffriva agli occhi, prima stava in piazza Maria Vergine e poi fu trasferita in via Tito.

Ogni maestro aveva la sua classe, perciò quando si cambiava classe, si cambiava anche il maestro. I maestri che ricordo sono Marras, Marini, Pessoni, Tronci, e poi le maestre Caterina Corona, Poddighe e Sig.ra Turno che aveva i tracomosi, poi arrivò Bonelli, etc. Le strade erano sterrate con mucchi di pietre ai lati per la manutenzione e quando d’inverno pioveva e le pozzanghere si gelavano, il divertimento di noi bambini era quello di spaccare lo spessore del ghiaccio con i piedi e spesso capitata di arrivare a scuola con i piedi sofferenti. Il maestro Marras, mi pare in seconda o terza elementare, che conosceva bene queste cose, comprava a sue spese una pomata contro i geloni e quando arrivava a scuola dava un’occhiata ai nostri piedi e poi chiamava ad uno ad uno i bambini che avevano i piedi spaccati dal freddo e ci frizionava la pomata. La bidella si chiamava Signora Nunzia, era come una mamma per i bambini e si comportava da mamma, per chi non rigava dritto interveniva lei personalmente e “fiant cropus[1], e se riferiva il fatto ai genitori “fiant atrus cropus[2]. Verso le dieci, Signora Nunzia arrivava con una “palinedda[3] piena di panini per la colazione, offerti dalla scuola. Mio compagno di scuola è stato il carabiniere Mario Cruccu, morto nella difesa di Roma nel settembre 1943.

Tessera del bambino “Balilla”


Tessera del bambino “Balilla”


Tessera del “Fascio Femminile”


Tessera del “Fascio Femminile”


Io sono l’ultimo di sei figli e prima di me c’erano cinque sorelle. Dopo le elementari andai a lavorare perché mio padre Severino si ammalò. A 13 anni andavo a piedi alle saline e mi davano “tres francus a sa dì[4] e ci potevo comprare un chilo di carne di maiale e per comprarla andavo a Sestu in bicicletta, perché a Monserrato c’era il dazio e tutto costava di più. A Sestu invece compravo a “mantinica” (mercato nero). A Monserrato c’era troppo controllo. E anche quando delle persone si fermavano a parlare per strada, non potevano essere più di due o tre, altrimenti si veniva subito interrogati in caserma. Dopo quasi un anno di lavoro i miei genitori mi comprarono una bicicletta di seconda mano e quando la sera pedalavo per il vicinato gli anziani che erano seduti per strada, come la cugina di mio padre Gilla Loddo, morta a 106 anni, Ninna de “Su Cavuru” che suonava chitarra e mandolino, il padre di Francesco “Pizzaroni”, Angelicu “Panatteri”, morto a 100 anni, ziu Alliccu Mattana, vecchi con i mutandoni bianchi a “sa sarda” legati a spago, tutti si stupivano per come una persona potesse stare in equilibrio e muoversi sopra una bicicletta. Nel mio vicinato sono stato il primo ad averne una. Quando d’estate gli anziani del vicinato si riunivano in strada, si portava una “palinedda” che veniva riempita con frutta o pomodori e a volte capitava che si cantava e ci si divertiva tanto.

Il giorno del mio 14° compleanno i miei genitori mi comprarono il cavallo, l’aratro e il carretto. Come aiutante mio padre chiamò il mio coetaneo Salvatore Pillosu che viveva in casa con noi e dormiva in camera con me.

Ho fatto tutta la trafila dell’educazione di regime, Figlio della Lupa, Balilla, Giovane Fascista e Avanguardista. Il sabato eravamo obbligati a presentarci altrimenti ci punivano malamente. Anche da bambini, vestiti da Balilla, ci facevano fare delle marce o delle gare. C’era molta disciplina e severità, forse troppa, ma anche molto ordine.

Porto dentro di me tanti ricordi della mia giovinezza, come quando le biciclette per poter circolare dovevano avere il bollo sistemato sulla canna e “sa guardia” Pileri era un uomo molto severo.

Quando pioveva o il tempo era brutto, le donne del mio vicinato si riunivano per recitare il rosario. Ognuna portava il suo rosario, chi grande chi piccolo, e a me piaceva stare lì in silenzio. Mi vedo ancora bambino seduto per terra, scalzo, attento ad ascoltare quelle preghiere in sardo. Mi piaceva, in particolare, una “dottrina” (preghiera), tanto che l’imparai a memoria e non l’ho più dimenticata. “Narada aici[5]:

“De pecadori mi cunfessu a Deus onnipotenti, a s’avventuralla, a sa sempiri virgini,

Maria, Santu Micheli Arcangelu e Santu Giuanni Battista

a is santus e a bosu, a Santu Perdu e a Santu Paulu

a tutus i santus e a bosu babbu spirituali,

chi preghei po sa curpa mia e po grandissima curpa mia,

mi speru m’eis a donai, sa vida eterna chi m’eis impromotiu

po i meritus de Gesu Cristu.

Fendi deu opera de bona cristiana, de comenti propongu de fai

ai santusu auxiliu bosus, a sa cali spetada sa bontadi bosta infinita. E aici siat”.

Anche il corteggiamento, prima della guerra, era molto diverso da oggi. Quando mia sorella maggiore “fia fastigendi[6], il pretendente quando passava per la strada di casa, doveva per forza passare sul lato opposto di casa nostra.

Da giovanotto avevo conosciuto due ragazze, che mi pare fossero figlie di un maresciallo dei carabinieri, e avevo intrapreso con loro una fitta corrispondenza.

Ricordo ancora molto bene che una mi scrisse: «I tuoi vent’anni li sciupi troppo presto, intanto non far sciocchezze, tutto potrebbe nuocerti, sarebbe un eterno pianto la tua mancanza, ti chiamo amore». E ancora: «La rosa è rossa, la foglia è verde, il nostro amore mai si perde».

Quando Mussolini venne in visita a Cagliari il 12 maggio 1935, anche noi di Monserrato fummo chiamati per la parata militare e mi misero inquadrato in prima fila. Eravamo schierati in via Roma, di fronte alla Rinascente, e quando Mussolini passò a piedi davanti allo schieramento si fermò davanti a me e mi toccò il mento. Quando divenni Avanguardista, il sabato sfilavamo in divisa per le vie di Monserrato per andare a fare la premilitare “in is argiolas de Pauli”[7], dovevamo essere almeno un centinaio di giovani, tutti inquadrati con la banda di tamburi in testa, e cantavamo: «Aprite le porte che passano, che passano, aprite le porte che passano gli Avanguardisti, come la marcia ben la seconda, seconda – come la marcia ben la seconda fucilieri. Il riso cotto, cotto, la pasta dura, dura – a furia di patate ci fanno far la cura, Il brodo non è brodo, la carne non mi va – bistecche cotte al forno ne mangio a festeggiar, uno, due. Ci portano al deposito per essere vestiti, ci danno il cappotto per essere imbottiti, ci mantano di panno fino a giù, o che brutta cosa non si cammina più».

Ma già dalla scuola iniziava l’educazione di regime. Imparavamo a memoria il giuramento fascista: «In nome di Dio e dell’Italia, giuro di eseguire gli ordini del Duce, di servirlo con tutte le mie forze, se necessario, anche con il mio sangue, per la causa della Rivoluzione fascista».

Il giuramento al Re d’Italia: «Giuro di essere fedele al Re ed ai suoi Reali Successori, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato e di adempiere a tutti i doveri del mio stato, al solo scopo del bene inseparabile del Re e della Patria».

La canzone del Balilla: «Fischia il sasso, il nome squilla del ragazzo di Portoria, e l’intrepido Balilla, sta gigante nella storia. Era bronzo quel mortaio, che nel fango sprofondò ma il ragazzo fu d’acciaio e la madre liberò. Fiero l’occhio, svelto il passo, chiaro il grido del valore. Ai nemici in fronte il sasso, agli amici tutto il cuor».

La canzone per Roma: «Su l’ara già spenta di Roma,piangea la vittoria un gran male, lo seppero i figli in ricordo, rinacque nell’aspri battaglie, un grido sgorgò da ogni petto, e l’anima fiera e mai doma, s’accese di sdegno e d’ardore, e tutti si dissero a Roma, a Roma andiam, a Roma andiam, a Roma andiam dalle cento città, sale un sol grido eae eae alala, leviamo le destre nuovo patto d’amor, consacri a Roma ogni patto di cuor. Li vide raccolti e frementi, fratelli lei disse fratelli, e tutti risposer presenti, lontana Caprera una voce, ci allieti di limpidi cieli, dall’urbe si scuotono i Mille si destan Scipion e Mameli, a Roma andiam…».

Poi cantavamo anche l’Inno di Roma: «Roma divina, a te sul Campidoglio dove eterno verdeggia il sacro alloro a te, nostra fortezza e nostro orgoglio ascende il coro. Salve, Dea Roma! Ti sfavilla in fronte il sol che nasce sulla nuova storia: fulgida in arme, all’ultimo orizzonte, sta la Vittoria. Sole, che sorgi libero e giocondo, sul colle nostro i tuoi cavalli doma, tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggior di Roma».

Io non so perché riesco a ricordarmi ancora, dopo quasi ottant’anni, tutte queste cose e tutte queste canzoni che mi vengono a memoria.

Queste canzoni le cantavamo ogni sabato. Prima si andava alla Casa del Fascio in via Giulio Cesare e poi ci portavano nelle varie aie di Monserrato a “su Pardixeddu”, nella zona dove ora c’è l’istituto alberghiero, a “su Forraxu[8], a “su Camp’e su para”, dietro via Zuddas lato destro andando a Selargius, oppure nelle aie vicino al campo d’aviazione, etc.

Ma veniamo al servizio militare. Ho fatto le visite nel Distretto di Cagliari alla fine dell’anno 1942, ricordo ancora il colonnello Carta. Quando mi chiamarono per partire, nell’aprile 1943 la mia famiglia era già sfollata a Escolca. Perciò il 31 marzo 1943 (spezzonamento di Monserrato), in attesa della chiamata alle armi, ero ancora a Monserrato e stavo lavoravo in campagna, precisamente a S. Lorenzo, con il mio amico Pinuccio Felis, ora deceduto. Lavoravamo in un ulivetto quando ad un tratto sentimmo il rombo dei motori degli aerei anglo-americani e subito ci gettammo dentro un fosso e quella fu la nostra salvezza. Terminato lo spezzonamento gli ulivi “fianta pudaus[9] erano tutti senza chioma. Non so cosa stessero cercando a S. Lorenzo, forse il vicino accampamento dei tedeschi che stava in località “Su Bisconti” (Elmas). Sfollammo a Escolca e fu lì che venni a sapere della chiamata per il militare. Non ci mandavano la cartolina a casa, ma la chiamata veniva fatta con l’affissione sui muri di un manifesto pubblico e tutti gli interessati erano obbligati a presentarsi. Avevo diciannove anni e quando vidi il manifesto dovetti presentarmi a Barumini e ci andai a piedi. Poi da Barumini mi mandarono a Cagliari e fui assegnato a Bonorva e a Monti. Ricordo le punture che mi fecero da militare, una nel petto e due nella schiena. Per una settimana rimasi con il petto gonfio. Forse sono quelle punture che mi hanno permesso di stare sempre bene.

Come detto, sono partito nell’aprile 1943 e assegnato al Deposito del 13° Sussistenza di Bonorva (SS). Io avevo dato la qualifica di panettiere. Nel mese di luglio venni assegnato alla 48° Squadra Panettieri – Forni Weis. Nei primi giorni di settembre 1943 stetti male e venni ricoverato per qualche giorno nell’Ospedale Militare di Sassari. Quando mi dimisero mi diedero venti giorni di convalescenza. Mi venne concessa anche una licenza agricola straordinaria di trenta giorni.

I nostri armamenti non erano certo all’avanguardia, c’era una motocarrozzella con una mitraglia sopra, che noi chiamavamo “Su Truncu e Passa”. Inoltre capitava che mancassero le munizioni. Il tenente Cazan ci mandava a cercare paracadutisti nemici con i fucili senza caricatore, ci sarebbe da ridere, se non fosse tragico.

Le due facce di una cartolina postale per le Forze Armate – esente da tasse – gennaio 1943


Nel maggio 1944 venni assegnato al Deposito del 13° Sussistenza di Bono (SS). Nel febbraio 1945 venni assegnato nella Compagnia Sussistenza di Monastir e dopo un mese mi mandarono a Cagliari e venni trasferito in continente. Con il mio gruppo venni imbarcato sull’incrociatore Monteccucoli e la mia destinazione era il Campo Affluenza di Frosinone e poi venni assegnato all’8° Reparto Sussistenza Centocelle di Roma.

Successivamente, nel 1945, fui trasferito al 4° Magazzino Recuperi di Verona. In città erano operative diverse squadre del Genio Militare impegnate nella ricostruzione di alcuni ponti provvisori sull’Adige perché i tedeschi in ritirata li avevano fatti saltare. I ponti provvisori venivano realizzati con delle barche disposte in fila, una di fianco all’altra, e sopra venivano sistemati degli assi di legno.

Il nostro compito con la Compagnia Recupero era quello di recuperare tutto ciò che i tedeschi in ritirata avevano abbandonato sul territorio e recuperammo insieme a tanti automezzi anche tanti cadaveri. I tedeschi in ritirata non lasciavano nulla dietro di sè, bruciavano tutto. Addirittura nella caserma dove eravamo alloggiati avevano bruciato anche le porte degli uffici e delle camerate.

Ricordo molto bene un fatto drammatico accaduto in quel periodo. Ci comunicarono di recarci con urgenza nel paesino di Mirandola e mentre ci stavamo recando sul posto, incontrammo tanta gente che piangeva procedendo nella direzione opposta alla nostra. Una volta arrivati all’ingresso del paese vedemmo una scena raccapricciante. Una mezza dozzina di uomini, legati mani e piedi, che, ormai cadaveri, pendevano a testa in giù. Slegammo e ricomponemmo i corpi.

Quando arrivai a Verona, in caserma non c’era nessuno che sapeva cucinare e così per alcuni mesi feci il cuoco. In uno stanzino della caserma, chiuso con una tendina, viveva una famiglia nullatenente, padre, madre e un figlio piccolo. Non avevano proprio nulla e così cucinavo anche per loro. Molti commilitoni, anche sardi, di questo fatto non erano contenti, penso più che altro per gelosia, ma io continuai nel mio proposito e per non sentire lamentele evitavo di farmi vedere quando andavo da loro. Quando dissi loro che mi avrebbero trasferito, piansero amaramente come gente di famiglia.

Con il mangiare dovevamo arrangiarci. Il rancio ufficiale prevedeva ogni 24 ore un po’ di minestra nella gavetta, verdura secca e 100 grammi di pane. Io mi salvai perché conoscevo le erbe selvatiche: “sa pe ‘e pudda”, “sa cicoria”, etc, e poi facevamo anche “latzus po pigai pillonis[10]. Inoltre, i compagni continentali dicevano che su “pisciacani in su ladamini” o “cordolinu biancu[11] era velenoso, ma avevamo stabilito che non era vero. Bastava sbollentarlo un po’ e si poteva mangiare.

Eravamo piedi di pidocchi e quando bisognava lavarci gli abiti ormai luridi, non avendo abbigliamento di ricambio, una volta stesi i panni in un solaio, eravamo costretti ad aspettare che asciugassero. Nell’attesa giocavamo a carte completamente nudi. Per un giorno sembrava di rinascere, ma quando la notte si tornava nelle brande, si ricominciava a grattare.

Il Comando Militare ci passava 5 sigarette Militi al giorno, ma io non fumavo e davo la mia parte al mio compaesano Ignazio Argiolas de “Barbetti”, eravamo come fratelli. In guerra c’era anche il fratello Badori ‘e Barbetti. Io davo le sigarette a Ignazio e lui mi dava la sua parte di pane, ma erano più le volte che non chiedevo nulla in cambio e gli lasciavo i suoi cento grammi di pane. Ricordo anche il mio compagno di Dolianova, Antioco Lepore, eravamo come fratelli. Di mestiere faceva il macellaio e lo misero in cucina, quando poteva si metteva dei pezzi di carne in tasca e quando la notte rientrava a dormire, stava nella branda sopra la mia, mi passava un po’ di carne. Una volta con Ignazio e Antioco stavamo passando davanti ad un casotto dal quale usciva un buonissimo odore di minestrone. Ignazio non capì più nulla e propose di entrare di prepotenza nel casotto e rubare la pentola, ma noi non fummo d’accordo. La fame acceca la mente.

Nella città c’era pochissimo da mangiare e ognuno si arrangiava come poteva e capitava che alcune donne che si erano accompagnate prima con i tedeschi poi si accompagnarono con gli americani pur di mangiare e sopravvivere.

A fine estate ‘45 venni trasferito ancora una volta e assegnato al 4° Reparto Recuperi della Direzione del Commissariato Militare di Bolzano. Oltre a Bolzano, svolsi servizio anche nelle città di Rovereto, Trento e Merano. A Bolzano c’era la città vecchia di lingua tedesca e la città nuova di lingua italiana. Ricordo che c’era una caserma scavata nella roccia, proprio dentro la montagna. Come avranno fatto a fare una cosa così proprio non lo so.

A Bolzano vidi i forni crematoi che stavano all’interno del campo di concentramento nazista[12]. I tedeschi organizzarono il campo nei vecchi capannoni del Genio Militare Italiano. Ho visto le stanze dove i tedeschi torturavano le persone. Le pareti erano tutte sporche di sangue e ho visto anche un grosso tavolo in legno con degli incastri dove venivano bloccate le mani dei prigionieri per poter strappare le unghie. Cose da non credere.

Quando arrivammo a Trento, capitò di entrare in un convento di suore che davano ospitalità ad alcuni militari italiani internati in Germania e ora rimpatriati. Erano circa una trentina di uomini ed erano così magri da far paura. Si potevano contare tutte le loro ossa. Erano in uno stato tale che non riuscivano neanche a mangiare da soli e venivano imboccati dalle suore con un cucchiaino. Mi sembra di vederli ancora. Li ho tutti davanti agli occhi. Ho visto anche altre brutte scene, come quando vidi dei ragazzi bloccare una ragazza per strada e tagliarle i capelli a zero.

Nell’ottobre 1945 venni assegnato al Direzione del Commissariato Militare di Bologna e successivamente nel febbraio 1946 fui trasferito a Cagliari dove venni congedato il 4 luglio 1946.

Conoscevo molto bene Nello Congiu, abitava nel mio vicinato. Erano cinque figli. Quattro fratelli e una sorella. In guerra sono morti tre dei quattro fratelli Congiu, che tragedia.

Ricordo anche l’agitazione politica a Monserrato nel dopoguerra e ricordo molto bene della volta che stavo al bar Centrale giocando a carambola con Ambrogio Masala, mio testimone di nozze, quando si sentì un gran fracasso in via del Redentore. Stava passando un gruppo di giovani comunisti con il loro gagliardetto. Il gestore del bar, Raffaele Sollaino, noto Sollaini, fece per uscire, ma io e anche altre persone, gli facemmo presente che forse non era il caso di farsi vedere. Infatti, oltre che simpatizzare col regime, girava voce di certe sue «soffiate», ma egli si affacciò ugualmente e stette ad osservare il gruppo che passava.

In quel momento, qualcuno del gruppetto chiese a Sollaini di fare il saluto al gagliardetto, ma egli si rifiutò. Venne messo in mezzo e gli fu data una passata di colpi piuttosto pesante al punto che di lì a poco lasciò il bar, vendette la casa e si trasferì ad Oristano.

Lo stesso capitò a “Malloccu”, che abitava nel mio vicinato, un fascista della prima ora, uno di quelli che dava l’olio di ricino. Quando invece venne il momento di fare i conti con Peppineddu Loddo, l’ex campione sardo di ciclismo degli anni venti, amico del campione Girardengo, egli fu più svelto di tutti e fece in tempo a salire sui tetti.

 

[1] “Erano sculacciate”.

[2] “Ed erano altre sculacciate”.

[3] “Cesta circolare in giunco intrecciato”.

[4] “Tre lire al giorno”.

[5] “Diceva così”.

[6] “Era corteggiata”.

[7] “Nelle aie di Monserrato”.

[8] Nome derivato dall’italiano forra, che a sua volta deriva dervivò dal longobardo furtha, per significare il profondo solco prodotto dal vicino torrente (riu Saliu): Mario Vincis “Uno sguardo al passato”, p. 81.

[9] “Erano potati”.

[10] “Lacci per catturare gli uccellini”.

[11] “Varietà di fungo”.

[12] Il campo di concentramento di Bolzano fu aperto nell’estate 1944. Il campo restò operativo per 10 mesi e per esso passarono quasi 10.000 persone. Era, con Fossoli, Borgo San Dalmazzo e Trieste, uno dei quattro lager nazisti in Italia. Quando il campo di Fossoli fu smantellato perché non più sicuro, Bolzano divenne il campo di transito per i prigionieri diretti a Mauthausen, Dachau, Auschwitz, etc.(nda).

Condiviso da Gianfranco Vacca