Efisio Sanna
Mi chiamo Sanna Efisio, sono nato a Monserrato il 21.09.1921. Mio padre si chiamava Giuseppe e mia madre Virginia Picciau. Nella mia memoria conservo tanti ricordi, come la sera che scoppiò la rivolta dei viticultori contro i commercianti di vino che tenevano il prezzo troppo basso, mi pare fosse a uno o due centesimi a litro, eravamo in autunno, era sera ed io stavo qui in cucina seduto davanti al caminetto con mio padre, sentimmo un gran chiasso provenire dalla strada, tante voci che si accavallavano, poi bussarono forte al portone di casa e qualcuno chiamò mio padre: “Pepineddu, bess’a foras”[1]. In pratica tutti i proprietari erano in agitazione e si stavano dirigendo verso su “mercau becciu”[2], all’incrocio tra via Giulio Cesare e via Del Redentore. Io potevo avere 8-9 anni e seguii mio padre, anche se non capivo tutta quell’agitazione. Mia madre, quando vide allontanarsi la sommossa, sapendo che certe cose in quel periodo potevano finire molto male, si mise a piangere[3]. Infatti, in quell’occasione furono arrestati il padre di Antonio Tinti, sceriffo, tziu Arrichettu Corona e anche altri di cui non ricordo il nome.
Da bambino giocavo a “bardunfula”[4] nel vicoletto di fianco al Fascio insieme a Gino e Totore Casula, figli di Eleonora Tinti, che abitavano proprio nella casa del Fascio. Quando la famiglia Casula si trasferì a Soleminis, dove possedevano un’azienda agraria, la casa di Monserrato venne donata al Fascio e mi pare che dopo la guerra i familiari tentarono di riaverla, ma non ci fu nulla da fare. Quando avevo 18 anni, il Fascio stava in via Attilio Mereu e venne organizzata una gita in bicicletta, di due giorni, a Dolianova. Partenza il sabato e rientro la domenica con alloggio per tutti in una casa sfitta ed era compreso anche l’ingresso gratuito al cinema.
Mio fratello, nato nel 1925, quando aveva circa 18 anni fu invitato al Fascio e sotto le lusinghe di tante promesse di vario genere, gli fecero firmare un foglio che poi mio padre scoprì essere la richiesta per partire volontario. Mio padre quando capì in che guaio si era cacciato mio fratello, andò al Fascio e fece presente che già aveva un figlio sotto le armi a servire la Patria, pertanto l’altro figlio era indispensabile per dargli una mano nei lavori in campagna. Il gerarca non volle sentire ragioni e gli rispose: «Chi firma, parte!». Allora mio padre si rivolse ad un federale di Cagliari, il sig. Lindiri, e grazie al suo intervento il nome di mio fratello venne cancellato dalla lista dei volontari. Anche se abitavo a fianco del Fascio, non l’ho mai frequentato e poi avevo già i miei impegni con la banda. Ricordo che al Fascio c’era un grammofono e spesso organizzavano serate danzanti.
All’età di diciassette anni i miei genitori mi mandarono a lezione di musica dal maestro Claudio Sesta di Cagliari, che dirigeva la banda di Assemini. Prima di partire per la leva, invece di fare la premilitare, andavo a suonare alla sede della GIL (Gioventù Italiana del Littorio). Si suonavano tutti i successi del momento e i vari inni del regime, Giovinezza e tutti gli altri. Di Monserrato eravamo un bel gruppetto: io, Italo Trudu, Felicetto Masala, Salvatore Sollai, noto Sennoreddu. La GIL stava dove ora c’è la sede RAI di viale Bonaria, c’era anche un grande campo sportivo dove le ragazze facevano la ginnastica. Per i suonatori c’era anche un altro vantaggio, ci davano i biglietti gratis per il trenino Monserrato/Cagliari, per tutta la settimana. Ho iniziato a suonare con la fanfara di Cagliari quando era diretta dal maestro Masservice, un grande antifascista e in più di una occasione “fiant accant’accant’e dd’arrestai”[5]. A volte durante le prove si presentava un gerarca e chiedeva di suonare qualche pezzo di suo gradimento, ma al maestro questo non andava a genio e così iniziava la discussione. Ricordo che nel 1936, durante la guerra per il possesso dell’Africa Orientale, quando arrivava a Monserrato il bollettino militare che annunciava la conquista di una città etiope, i fascisti chiamavano subito la fanfara per fare una suonata per le strade cittadine, “e gùai a no andai”[6], era obbligata ad uscire altrimenti c’erano ritorsioni. Una volta “femus passendi in su Forraxu”[7] e nei bordi delle strade, tutte senza asfaltare, c’erano dei mucchi di fango, “de cumenti iant allichidiu is cunetas”[8], e il maestro Cesare Spiga ci mise sopra il piede e mentre si piegava per pulirsi la scarpa iniziò a inveire contro Mussolini, nonostante a poca distanza ci fossero i dirigenti fascisti in prima fila. Tantissimi anziani a Monserrato erano sardisti e mal sopportavano il nuovo regime. In quel periodo a Monserrato c’erano due grandi bande. Con la banda vecchia, quando c’era il maestro Murgia, abbiamo provato per quattro o cinque anni nel saloncino del Fascio. Con noi suonava anche Efisio Atzeni di Monserrato, il quale era l’unico che suonava nell’orchestra di Cagliari senza avere il diploma. Era bravissimo, suonava la mezzo tuba, uno strumento da accompagnamento, non facile da suonare, e che molti snobbavano perché di solito si preferisce lo strumento solista che dà risalto alle proprie capacità. In tutta la mia vita ho suonato con 19 maestri.
Quando passavano le sfilate del regime, di qualsiasi genere fossero, occorreva stare in piedi e fare il saluto romano e se uno non lo faceva c’erano ritorsioni immediate. Una volta passava uno di questi cortei e tziu Amineddu, Erminio Spiga, un viticoltore grande e grosso, si trovava al bar Centrale e distratto da altre cose non fece il saluto; allora si avvicinò da dietro Emilietto Marini, uno che a Monserrato fece arrestare un sacco di gente, e gli calcò il cappello sulla testa e quest’uomo non reagì. Finita la guerra, tziu Amineddu incontrò Emilietto Marini, gli si mise davanti e gli disse: “Naramì unu pagu, ses bonu a torrai a fai cussu chi as fatu sa dì chi est passada sa sfilada”. Emilieddu s’è fuiu, tottu currendi[9]. Il giorno stesso di questo fatto un bel gruppo di persone tra cui io, mio fratello, Plinio Spiga, Italo Badas, su tappu, Antonino Badas e altri, “da eus fata nosu sa sfilada andendi a circai tottu cussa genti”[10]. Il gruppo partì dalla sede del partito Sardo d’Azione di via Del Redentore, ma prima di muoversi qualcuno andò da Sollaini, gestore del bar Centrale, e gli disse: “Sollaini, serra tottu e baidindi”[11]. Il gruppo quindi si diresse verso casa di Renzo Piludu, in via Giuseppe Zuddas, e qualcuno cercò di sfondare il portone. Poi si tornò in via Del Redentore e il bar era ancora aperto e il gestore venne malmenato.
Ma veniamo alla vita militare. Sono partito di leva in Marina il 16 aprile 1941 e dovevo farne 28 mesi. Anche l’amico Felicetto Masala fu assegnato alla Marina, ma doveva partire a maggio, allora fece richiesta al Comando Marina per anticipare la partenza per partire con me. Contrariamente a quanto pensavamo, gli fu accordato e partimmo con destinazione La Maddalena. Qui ci diedero le divise e tutto l’equipaggiamento e ci comunicarono la destinazione. Io imbarcato sull’incrociatore “Luigi di Savoia, Duca degli Abruzzi” e Felicetto Masala assegnato al Comando Marina di Napoli, in una caserma dove stava la base dei sommergibili. In quel periodo, l’incrociatore, come buona parte della flotta italiana, si trovava in rada a Palermo e perciò dovetti andare a Civitavecchia e poi in treno fino a Palermo. La prima cosa che mi colpì fu vedere il porto circondato da tantissimi palloni frenati che venivano utilizzati come contraerea, sembravano tante mongolfiere, “paremus in festa”[12]. Quando arrivai in porto rimasi sbalordito. Io conoscevo solo le carrette che ci portavano a Civitavecchia e non avevo mai visto delle navi così grandi e vedere la flotta schierata era uno spettacolo veramente eccezionale e quando giunsi davanti all’incrociatore e “apu cumentzau a atziai in su barcaritzu, giai giai mi tremiant is cambas”[13].
L’incorociatore Duca degli Abruzzi in navigazione
L’incorociatore Duca degli Abruzzi nel 1942 assunse l’asssetto tattico da battaglia con delle bande nere oblique dipinte sullo scafo
Il Duca degli Abruzzi era la nave ammiraglia dell’VIII Divisione Incrociatori, era comandata dall’Ammiraglio Luigi Biancheri, aveva una stazza di oltre 11.000 tonnellate, poteva contenere un equipaggio di circa 1.300, di norma si era la metà. Il Duca degli Abruzzi io lo vedevo enorme con i suoi 190 metri di lunghezza e con tutti quei cannoni. Faceva parte della I^ Squadra Navale della Regia Marina e la nostra squadra era composta dalla corazzata Caio Duilio, da due incrociatori leggeri il Duca degli Abruzzi e il Giuseppe Garibaldi e da tre cacciatorpediniere. Spesso viaggiava con noi anche l’incrociatore Montecuccoli. Con noi avevamo due ricognitori che venivano lanciati con una catapulta, ma non facevano rientro a bordo, atterravano a terra nell’aeroporto più vicino. Essi si alzavano in volo quando si era in prossimità di una battaglia per dare la posizione del naviglio nemico. Il Duca degli Abruzzi era armato con 10 cannoni da 152/55 mm, 5 a prua e 5 a poppa, installati su due torri trinate e 2 binate, 8 cannoni 100/47 mm, 8 mitragliere da 37/54 mm, 12 mitragliere da 20/65 mm, 6 tubi lanciasiluri da 533 mm, tre per parte e 2 lanciabombe di profondità e 2 ricognitori, come detto. Ricordo queste cose perché facevo l’assistenza ai pezzi, portavo i proiettili, ma andiamo con ordine.
Appena salito a bordo, rimasi a disposizione in attesa dell’assegnazione e un superiore mi disse: «Sanna, guardi che qui l’allarme suona ogni ora, lei comunque cerchi di non avere paura e quando lo sente scenda in zona macchina». Beh, proprio quella notte suonò l’allarme. Il giorno dopo venni assegnato all’assistenza delle mitragliere da 20 mm. Il mio compito era quello di portare le cassette delle munizioni e sistemarle vicino al mitragliere. Chi sparava era il comandante di plancia. Poi c’erano gli addetti alla punteria, di solito dei marescialli o ufficiali, muniti di cuffie per proteggere l’udito e davano le indicazioni di tiro. Inoltre, sono stato anche all’assistenza dei cannoni da 100 mm; lì era più faticoso, con grossi guanti dovevo prendere i lunghi proiettili, che pesavano circa una quindicina di chili, e dovevo velocemente sistemarli nel cannone e chiudere la culatta. Avevano una gittata di una quindicina di km.
Il 24 settembre 1941, presi parte al mio primo conflitto a fuoco in prossimità del golfo della Sirte. Con tutta la squadra prendemmo il mare per intercettare un convoglio inglese che da Gibilterra portava dei rifornimenti all’isola di Malta. Non riuscimmo a stabilire un contatto con le navi inglesi perché venimmo attaccati da aerosiluranti e noi rispondemmo al fuoco. Il convoglio inglese venne anch’esso attaccato da aerosiluranti italiani che colpirono una corazzata, che rientrò a Gibilterra, e un mercantile che affondò.
Verso la fine del 1941, mancava poco a Natale, partimmo da Napoli diretti a Tripoli per una missione di scorta a 30 convogli carichi di rifornimenti per la Libia. La flotta era composta da navi italiana e navi tedesche. Gli incrociatori leggeri Duca degli Abruzzi, Garibaldi e Montecuccoli, l’incrociatore pesante Trieste e la corazzata Giulio Cesare. Comunque, stavamo appena uscendo dal porto e già suonava l’allarme della contraerea. Quando venne notte il convoglio viaggiava con tutte le luci spente e intorno lasciavamo una cortina fumogena per non essere individuati dall’aviazione inglese. Ad un certo punto sentimmo sopra di noi il rombo degli aerei della RAF, ma con tutti gli accorgimenti che avevamo preso non c’era pericolo e il comandante ci disse: «Tranquilli, lasciateli passare». Purtroppo, non essendoci alcun coordinamento con le unità tedesche, il comandante di una di queste unità ordinò di aprire il fuoco contro gli aerosiluranti inglesi e così fummo localizzati e attaccati. Alle 23,30 ci giunse notizia che la Trieste era stata silurata, ma non affondata, alle ore 23,45 vennero contro di noi, ci lanciarono contro 3 siluri, il comandante riuscì a schivarne due, ma il terzo ci colpì a poppa, creando uno squarcio di 25 metri e causando la morte di trenta uomini, perlopiù personale di macchina. Quando salii in plancia, nella più completa oscurità, sentivo che i piedi urtavano contro qualcosa, fino a quando non mi accorsi che stavo camminando sopra i corpi senza vita dei miei compagni. Per fortuna gli aerei dopo lo scontro non ritornarono, perché saremmo stati un facile bersaglio, infatti, con l’incrociatore Trieste, rientrammo verso Messina viaggiando a tre miglia all’ora. Un’altra cosa, il siluro aveva danneggiato l’asse d’acciaio di un’elica e questa girando batteva contro lo scafo, pareva una campana che suonava a morto, “cun tottus cussus motus a pitzus”[14]. Non ricordo se fossimo riusciti ad abbattere qualche aereo, Comunque, il resto del convoglio protetto dalle altre unità arrivò a Tripoli. Quando entrammo nel porto, c’era tutta Messina ad aspettarci perché molti morti erano di quella città.
Durante la battaglia aeronavale del settembre 1941, il Duca degli Abruzzi venne colpito e fece una prima riparazione del ponte con delle piastre d’acciaio effettuata nel porto di Messina, in modo da potersi dirigere verso il porto di Genova per la riparazione completa
12 maggio 1942 – Navarino (Grecia) – Caccia inglesi in avvicinamento
Il mio compaesano Gigetto Tinti, fratello di Pinuccio, era imbarcato sull’incrociatore Garibaldi e avendo saputo dei morti in combattimento, quando scese a terra venne subito a cercarmi sul Duca degli Abruzzi e quando mi trovò si commosse, mi abbracciò a lungo e mi disse: “Efisio, no t’agatamu e apu depiu scuberri tottus is motus, a unus, a unus”[15]. Con me c’era anche un altro monserratino, era più grande di me, si chiamava Memello, diminutivo di Emanuele Piludu, il padre era fratello della nonna del pittore Gianni Argiolas. Un altro monserratino che era in Marina era Efisio Cocco, però prestava servizio a terra nel porto di Taranto e, ogni volta che passavamo di là, andavo a trovarlo e si passava un po’ di tempo insieme.
A Messina l’incrociatore venne riparato alla meglio con delle piastre d’acciaio bullonate sul ponte, in modo che potesse giungere ai cantieri navali di Genova per la riparazione. In attesa di questa prima riparazione, ci divisero in due gruppi e ci mandarono a riposare nei paesini intorno a Messina. Eravamo tutti sotto shock per l’agitazione e per la paura provata durante la battaglia. Quando la nave fu pronta, partimmo per Genova e in attesa della riparazione, ci mandarono in licenza, altrimenti mai ci avrebbero mai mandato. Ci vollero quattro mesi per la riparazione e riprendemmo il mare nella primavera 1942. Dopo i lavori la nave aveva un altro aspetto, perché venne mimetizzata con delle grandi bande nere dipinte sui fianchi su fondo bianco e disposte in modo obliquo irregolare.
A bordo eravamo suddivisi in squadre. L’ora della sveglia dipendeva dalla stagione. Per tutto il periodo della guerra siamo stati sempre all’erta con turni continui di quattro ore e quattro ore di riposo. La mattina colazione, poi il pranzo verso le 12,30 e alla sera la cena. La carne non mancava quasi mai. A bordo c’erano dei grandi frigoriferi ed il forno del pane. Il cuoco era un borghese militarizzato. Quando la nave andò in riparazione dopo aver preso il siluro, questo cuoco venne sbarcato e prese il suo posto un sottufficiale. Durante la navigazione nei porti acquistavamo solitamente solo verdura e frutta. Ricordo che si faceva sempre il controllo sulle zucche per il timore che non nascondessero qualche ordigno. Sulla nave non abbiamo mai patito la fame, la cambusa era sempre piena e avevamo un’autonomia di sei mesi. La nave era sotto il comando dell’ammiraglio, poi c’erano il comandante in prima, il comandante in seconda, i tenenti di vascello e i capi reparto. Noi marinai eravamo suddivisi in reparti con a capo un tenente. Io facevo parte del IV reparto, comandato dal tenente Santernecchi. A bordo avevamo la radio e sentivamo sempre il radiogiornale.
Sanna Efisio con un commilitone in un momento di riposo.
Nei primi mesi del 1943 sentivo sempre più spesso che Cagliari veniva sottoposta a bombardamenti Alleati ed io, non ricevendo corrispondenza, ero tanto preoccupato per la mia famiglia. Quando eravamo in rada a Taranto, feci presente al mio superiore tenente Santernecchi, che abitavo vicino a Cagliari, precisamente a Monserrato, dove c’era un aeroporto militare, e pertanto gli chiesi qualche giorno di licenza per andare dai miei genitori. Il tenente mi fece un sacco di storie perché la Sardegna era lontana e i collegamenti navali non sempre erano assicurati e quindi mi invitò a lasciar perdere e così me ne andai. Proprio quella notte alla radio riparlarono di altri bombardamenti a Cagliari, gravi danni in città, la ferrovia colpita, etc. Così la mattina seguente andai nuovamente dal tenente e rinnovai la mia richiesta e lui rispose: «Ma figlio mio, non è possibile, è troppo pericoloso». Allora gli dissi: «Vorrei parlare con il comandante in seconda, mi accompagna per favore?». Ai marinai era permesso parlare con i comandanti solo se accompagnati da un ufficiale. Arrivati dal comandante di seconda rinnovai la richiesta di licenza con le motivazioni già spiegate al capo reparto, ma anche lui mi rispose le stesse cose del tenente, aggiungendo che non si prendeva la responsabilità per un viaggio tanto lungo e difficile. Allora dissi al comandante: «Non mi resta che giocare l’ultima carta, può accompagnarmi per favore dal comandante in prima?». “Nci ddi scapada s’arrisu”[16] e mi invitò a seguirlo. Arrivammo dal comandante in prima, che in quel momento stava uscendo dal suo alloggio, e il comandante in seconda gli disse: «Senta cosa sta chiedendo questo marinaio». E per la terza volta ripeti i motivi per cui chiedevo la licenza. Il comandante ascolto in silenzio e poi mi disse: «Ma è troppo pericoloso, ma perché vuoi rischiare la vita in un viaggio così lungo». E allora risposi deciso: «Signor comandante, io rischio la vita giorno per giorno, minuto per minuto, per difendere la Patria e non rischio una volta per vedere la mia famiglia». Il comandante stette un attimo zitto e replicò: «Vattene in licenza». Mi diedero quindici giorni, però non mi mandarono da solo, fui accompagnato da un sottocapo, anche lui sardo del centro Sardegna, di cui non ricordo il nome, così avremmo fatto il viaggio insieme.
Il marinaio Efisio Sanna
Da Taranto a Civitavecchia ci vollero sei giorni e, siccome le navi per la Sardegna non c’erano tutti i giorni, fummo alloggiati in una caserma della Marina. Avevamo vitto e alloggio, però ognuno doveva lavarsi la gamella e i piatti che sporcava. In quella caserma incontrai altri sardi e “si femus cuncordaus a pari”[17] e siccome nessuno voleva lavare quello che sporcava, approfittammo di un marinaio che si era offerto di farlo “po dus soddus”[18], dopo qualche giorno tra quello e altre cosette “emu spaciau tottu su dinai chi tenemu”[19]. Comunque, sopraggiunse la nave, una bella carretta, e arrivammo a Olbia e poi in treno fino a Cagliari. Giungemmo verso mezzanotte, via Roma era completamente distrutta, i binari del tram erano divelti e rivolti verso il cielo, “nci fiada unu fragu de genti mota”[20]. Chiesi ad un passante da dove partiva il treno per Monserrato e mi rispose di andare in piazza Garibaldi. Arrivati lì chiedemmo del treno, ma l’ultimo era già partito e così ci dirigemmo verso Monserrato a piedi. “Arribaus a domu, tocu su potali e nudda”[21]. Non sapevamo cosa fare. Allora bussai alla caserma dei Carabinieri, che stava quasi di fronte a casa, qui in via Giulio Cesare. Si affacciò un militare, feci presente che abitavo lì vicino, ma bussando a casa non rispondeva nessuno e pertanto non sapevo neanche se i miei erano vivi o morti o se erano sfollati, e chiesi se ci ospitavano per la notte, ma il carabiniere rispose che posto per dormire non ce n’era e ci consigliò di provare all’aeroporto. Mentre stavamo andando al campo d’aviazione incontrai mio cugino, Cesare Piludu, il fratello di Peppuccio, la mamma era sorella di mamma. Lui rientrava da casa della fidanzata e dopo la grande sorpresa nel vedermi, mi abbracciò con commozione e mi disse che i miei erano sfollati a Las Plassas e ci invitò a casa sua, in via Orazio. L’indomani andammo alla stazione di Pirri per prendere il treno per Las Plassas, mentre il mio compagno di viaggio proseguiva per il centro Sardegna e ci demmo l’appuntamento per il ritorno. Appena partiti passò il controllore, ma io non avevo nè soldi nè biglietto, e feci vedere il foglio della licenza con cui potevo viaggiare gratis. Quest’uomo disse che quel foglio non contava nulla, perciò o facevo il biglietto o dovevo scendere a Settimo. La cosa mi diede molto fastidio e iniziai ad alzare la voce dicendo che io a Settimo non sarei sceso. Sul treno c’era una signora di Pirri, mai vista prima, si avvicinò e si offrì di pagarmi il biglietto, io rifiutai ma lei insistette e pagò. Poi mi disse che anche il marito era un marinaio e stava in Grecia a Navarino. Quel nome mi era familiare, perché per diverso tempo facemmo servizio di scorta proprio ai convogli per Navarino e conoscevo bene i sardi che stavano lì. Di quest’uomo ora non ricordo più il cognome ma solo il nome, si chiamava Luciano, “de allomingiu: Merdonedda”, allora le chiesi se non fosse la moglie del mio amico e lei meravigliata rispose sì, quindi aprii la valigia e le mostrai una foto dove c’ero io con il marito della signora, e lei si mise a piangere. Abitavano di fronte alla chiesa di S. Giuseppe. Finita la guerra, con il mio amico ci incontrammo solo una volta e per giunta in treno.
Dopo i bombardamenti di febbraio a Cagliari, mio padre decise di sfollare a Serdiana ed essendo un viticoltore, scendeva spesso a controllare la casa e i vigneti e per fare rifornimento di viveri. Un giorno, mentre andava a Monserrato a “carretoni a mulu”[22], all’altezza della polveriera, un’auto di militari tedeschi investì il mulo, uccidendolo. Per fortuna mio padre non si fece nulla e i tedeschi per fortuna riconobbero le loro responsabilità e lo risarcirono bene. Dopo alcune settimane di sfollamento, si sparse la voce che anche Serdiana era a rischio e così i miei genitori decisero di spostarsi a Las Plassas e quando mi videro arrivare si commossero dalla gioia, al punto che mio padre propose a mia madre di rientrare a Monserrato per trascorrere i 15 giorni di licenza, anche perché la situazione pareva si fosse calmata. E così rientrammo a Monserrato a “carretoni cun su mulu nou”[23]. Arrivammo la sera del 30 marzo 1943. L’indomani all’ora di pranzo, mia madre “iada incasau macarronis cun satitzu friscu”[24]. Il tempo di iniziare a mangiare e suonò la sirena dell’allarme aereo. Lasciammo stare tutto com’era e corremmo a nasconderci nel magazzeno che stava nella parte più lontana della casa, verso via Alessandro Severo. Eravamo in sei, genitori e quattro figli. Mio padre si nascose tra le botti, mentre gli altri sotto un arco di muratura pensando che fosse la parte più resistente, senza avere la minima idea dell’effetto micidiale degli spezzoni. A casa non successe niente, ma uno spezzone cadde qua vicino, in via Marco Aurelio, nella casa all’angolo con via A. Severo e causò la morte di cinque persone, tra le quali anche mio cugino Peppineddu Sanna, il fratello del padre di Remo Sanna “de Bubua”. Con Pepineddu avevo trascorso la mattina del 31 marzo 1943. Ci incontrammo casualmente sul trenino per Cagliari. Entrambi eravamo diretti ai rispettivi Comandi per farci firmare la licenza. Infatti, anche lui era militare come me, ma nell’Esercito ed era più o meno mio coetaneo. Io andai al Comando della Marina e lui andò al Distretto Militare. Quando finimmo, mi invitò ad andare con lui a S. Benedetto per salutare la ragazza con cui “fiada fastigendi”[25]. Voleva presentarmela, ma i miei mi aspettavano per pranzo e non volevo fare tardi e rientrai a Monserrato. Pepineddu si trattenne con la sua fidanzata e rientrò a Monserrato proprio quando stava suonando l’allarme aereo. La stazione del trenino stava in via Cesare Cabras, che allora non esisteva, vicino all’attuale rotonda con il locomotore, e per rientrare a casa sua, in via Orazio, passò da via Marco Aurelio e, forse a causa delle prime esplosioni, decise di ripararsi in quella casa e purtroppo quel riparo gli fu fatale e non ebbe scampo. Una terribile fatalità. Se anch’io fossi rimasto con lui, probabilmente avrei fatto la stessa fine. Lo spezzonamento sarà durato circa un quarto d’ora e quando tornò il silenzio, io mi affacciai in strada e stavano passando quelli dell’U.N.P.A.[26]. Erano due di Monserrato, padre e figlio, in abiti borghesi, con un elmetto in testa e una fascia al braccio con scritto U.N.P.A. Il più giovane mi disse con aria di rimprovero: «Signore, se ne vada dentro». E tra me pensai: “Bai, bai mucosu, ch’iasta biu cussu chi apu biu deu”[27]. E tornai dentro casa. Nel frattempo la sera ci arrivò notizia della morte di Pepineddu e l’indomani andai con mio fratello in cimitero per dargli l’ultimo saluto. I morti erano appoggiati sul pavimento della camera mortuaria ed erano coperti con delle lenzuola. Che strazio, c’era tanta gente ammucchiata in quella stanzetta e per cercare mio cugino dovetti scoprire quasi tutti i morti e finalmente trovai Pepineddu. Era completamente insanguinato. Il giorno stesso ripartimmo per Las Plassas. Terminata la licenza, tornai a bordo.
Ricordo che ogni volta l’incrociatore era ormeggiato in un porto, la nave, su eventuale ordine del Comando Marina, doveva essere pronta a salpare entro tre ore e questo ci capitò a Genova. Eravamo in libera uscita, chi era al bar, chi al cinema, chi nelle case di tolleranza, insomma ognuno per i fatti suoi. Ad un certo punto, dalla nave partì l’ordine di levare le ancore. Subito furono allertate tutte le ronde presenti in città, le quali iniziarono a cercare i marinai dell’incrociatore. Nei cinematografi furono sospese le proiezioni, si accesero le luci in sala e fu diramato l’ordine di rientro immediato per l’equipaggio del Duca degli Abruzzi. Le ronde girarono tutti i locali notoriamente frequentati dai marinai.
Dopo la conquista della Grecia e di Creta da parte dei tedeschi, fummo dislocati, con gli incrociatori Garibaldi e Duca d’Aosta, nel porto a Navarino, nel sud della Grecia, per la protezione del traffico mercantile nel Mediterraneo Orientale da attacchi di unità navali britanniche. Durante un servizio di scorta, il 12 maggio 1942 fummo attaccati da aerei alleati e subito rispondemmo al fuoco e in quell’occasione riuscimmo a colpirne alcuni che caddero esplodendo. Rientrammo in Italia alla fine del 1942 e l’incrociatore fu sottoposto a lavori di manutenzione, durante i quali venne installato un radar. Ripreso il mare, ci aggregarono in forza alle navi da battaglia e a dicembre riprendemmo la scorta al naviglio che riforniva Tripoli.
Nei primi giorni di settembre 1943 eravamo all’ancora nel porto di Genova. La sera dell’8 settembre ci arrivò la notizia dell’armistizio e subito sulla nave ci furono scena di grande gioia e tutti ci abbracciammo, ma proprio in quel momento di festa, sentimmo accendersi gli altoparlanti, era il comandante che diceva: «Figli miei voi siete contenti perché la guerra è finita, ma la guerra non è finita, anzi sta per cominciare». E non aggiunse altro. Passarono dieci minuti ed il comandante diede l’ordine: «Tutti ai posti di combattimento». Queste scene di gioia e poi di delusione si verificarono in tutte le navi italiane. Durante la notte arrivò l’ordine di partenza immediata e tutta la squadra navale lasciò Genova. Noi, il Garibaldi, il Duca d’Aosta e tutte le altri unità navi, compresi i sommergibili, ci dirigemmo verso la Sardegna, esattamente l’isola di La Maddalena, però procedendo da ovest, in pratica saremmo arrivati dalla parte dell’Asinara. Lo stesso ordine lo ricevette la squadra navale ormeggiata a La Spezia, comandata dell’Ammiraglio Carlo Bergamini. Gli Alleati ci imposero di issare su tutti le navi un drappo nero, ma l’Ammiraglio Bergamini non fu d’accordo e lasciò il porto di La Spezia con il “gran pavese”[28]. Quando sorse il sole vidi un gran numero di navi che facevano la nostra stessa rotta, Ma successe l’imprevedibile. In prossimità dell’isola dell’Asinara arrivò l’ordine di ripiegare perché l’isola di La Maddalena era stata occupata dai tedeschi. Immediatamente tutte le navi invertirono la rotta e si diressero nuovamente ad ovest. Si attardò solo la corazzata Roma, nave ammiraglia della Regia Marina, dove stava l’Ammiraglio Bergamini. Dopo breve tempo, sentimmo il rombo di caccia in avvicinamento, la squadra aprì il fuoco, ma la Roma venne colpita da una bomba, la nostra nave allora gli girò intorno con ampio raggio, ma la Roma venne centrata da una seconda bomba e l’esplosione le fece saltare addirittura la torretta di comando e non ci più nulla da fare. Nella Roma morì anche un marinaio sardo di nome Pacis, che di solito andavo a trovare quando capitava di trovarci nello stesso porto e così facevano tutti i marinai sardi quando si sapeva che in porto c’erano navi con sardi a bordo. Eravamo molto uniti. Dopo questa tragedia tra gli ufficiali del Duca degli Abruzzi girava voce che il comandante della Roma, volesse consegnare la nave ai tedeschi, ma venne ucciso dal comandante in prima, perché stava trasgredendo all’ordine ricevuto. Questi fatti parrebbero che siano la causa del ritardo dell’inversione di rotta rispetto al resto della squadra e ciò rese la Roma più vulnerabile all’attacco dall’aviazione tedesca. Comunque tutte le unità aprirono il fuoco, ci fu un vero inferno, “chi emus sparau aici a Sa Maddalena, d’emus spianada”[29]. Alcune unità prestarono soccorso ai superstiti e noi non sapevamo più dove andare. Andammo in Spagna, ma ci diedero ordine di stare massimo quattro ore e poi si doveva andar via. Siamo rimasti dei giorni in navigazione senza sapere nulla. In questa totale incertezza, il nostro comandante radunò gli ufficiali e parlò dell’ipotesi di autoaffondare l’incrociatore per non consegnarlo al nemico. Ma un ufficiale di Bari, di cui non ricordo il nome, ci avvisò e ci disse di tenere d’occhio le armi e il deposito munizioni perché c’erano in giro voci per l’autoaffondamento. A quel punto siamo tutti corsi ai posti di combattimento per far capire che non avevamo nessuna intenzione di affondare il Duca degli Abruzzi. Quando l’Ammiraglio Legnami vide la nostra reazione ci disse: «Si è vero c’era l’ipotesi di affondare le navi, ma ora non ha più senso, state tranquilli e proseguiamo la navigazione». Al terzo giorno arrivò l’ordine dal Comando Marina di dirigerci verso l’isola di Malta insieme con le unità partite dal porto di Taranto. Tutte le unità erano sotto il comando dell’Ammiraglio Oliva, sostituto dell’Amm. Bergamini, il quale ricevette l’ordine di consegnare le navi e gli equipaggi agli inglesi. Durante l’avvicinamento le nostre mosse furono seguite da un ricognitore della RAF. Quando entrammo in porto, vedemmo uno spettacolo terribile. Era pieno di navi affondate e le banchine devastate dai bombardamenti. Una volta attraccati, scendemmo dal barcarizzo e ci venne incontro un prete italiano che ci disse: «Italiani, ma che cosa avete combinato. Potevate occupare Malta con una barchetta. Qua non c’era più niente e noi aspettavano voi per avere un po’ di respiro». Ci chiese anche se avevamo da mangiare. Scesi a terra gli inglesi ci hanno subito disarmato e tolto i battenti ai cannoni.
Dopo poco tempo, gli inglesi ci fecero riprendere il mare e questa volta come loro alleati. Restammo fino ai primi mesi del 1944 nel Mediterraneo, si faceva anche la rotta da Napoli a Cagliari. Il 16 marzo attraversammo il canale di Suez per raggiungere Ismailia[30], dove gli inglesi avevano nascosto alcune delle nostre corazzate: l’Andrea Doria, la Giulio Cesare, etc. Da lì ci destinarono al pattugliamento dell’Oceano Atlantico lungo le coste africane contro le navi pirata. La squadra era composta dal Duca degli Abruzzi, da un incrociatore inglese e uno francese. A bordo venne fatto salire un ufficiale inglese per la traduzione dei messaggi cifrati del Comando Alleato. Comunque, nonostante presenza dell’inglese a bordo, ci fu un incidente per fortuna senza conseguenze. Durante la perlustrazione stavamo abbastanza lontani tra di noi e ad un certo punto suonò l’allarme, tutti ai posti di combattimento e ci fu ordinato di aprire il fuoco contro l’incrociatore francese. Sparammo con i cannoni da 152/55 mm di prua, ma non lo colpimmo, perché il primo tiro andava sempre sulla scia per essere certi di colpire con il secondo. Quando i francesi si videro sfiorare dalle nostre cannonate subito si attaccarono al telefono per chiederci che cavolo stavamo facendo e se fossimo impazziti e così l’equivoco per fortuna fu presto chiarito. Con i francesi ci furono anche altre situazioni critiche. Stavamo in rada a Gibilterra e poco prima di mezzogiorno, questo lo ricordo benissimo, il comandante aveva fatto scendere in mare una motobarca per andare a fare la spesa a terra. In porto c’era un gruppo di militari francesi che si avvicinò al nostro mezzo e iniziò ad insultare il nostro equipaggio e qualcuno si mise a sputare la nostra bandiera. Dopo la spesa l’equipaggio rientra a bordo e fa partecipe dell’accaduto l’ufficiale di guardia, il quale senza pensarci su fa un appello: «Tutti i marinai che vogliono scendere a terra si facciano presenti perchè c’è da bastonare i francesi». Un bel gruppo di marinai subito si precipitò sulla motobarca, ma io avevo un impegno a bordo e non dovevo andare, ma i miei amici insistettero tanto e mi dissero: «Dai sardo che tu sei capace di dare testate». E così hanno coinvolto anche me nella rissa. Loro stavano su un battello e cercavano di respingerci con i remi per non farci avvicinare, ma “femus tropu inchietus, dd’us ‘eus aciapaus e dd’is ‘eus donau una bella passad‘e cropus”[31]. Lì a Gibilterra incontrai un monserratino, il fratello di Ezio Mereu, era imbarcato come marinaio in un cacciatorpediniere, questo compaesano poi divenne diacono nella parrocchia del SS. Redentore. Si facevano 16 giorni di navigazione e poi riposo a terra. Siamo arrivati fino alla Sierra Leone e al Sudafrica. In pratica dal 1944 al 1945 siamo stati quasi sempre in mare, da un’estate all’altra “femu nieddu cument’e sa pisci”[32]. In Sudafrica nella primavera 1944, al comandante gli venne la fissa di catturare un coccodrillo per prenderne la pelle. Prese con sé diversi marinai e con un paio di imbarcazioni, dotate di mitragliere, risalìrono un grande fiume, ad un certo punto, fece fermare i mezzi e invitò quattro o cinque uomini a scendere in acqua per fare da esca per attirare il coccodrillo e ordinò ai mitraglieri di stare con gli occhi ben aperti. Poco dopo ecco un coccodrillo che lentamente avanzava verso i marinai, ma subito fu aperto il fuoco e per il povero animale non ci fu scampo e questa foto ricorda quel giorno. Era enorme, La prima volta che raggiungemmo l’equatore, il comandante ci fece mettere sull’attenti sul ponte e passò in rassegna tenendo in mano un secchio d’acqua di mare e ci bagnò uno per uno. Il battesimo dell’equatore.
Sudafrica, primavera 1944, cattura di un coccodrillo da parte dell’equipaggio del Duca degli Abruzzi.
Terminata la guerra l’incrociatore Duca degli Abruzzi rientrò in Italia e io nel dicembre 1945 fui congedato, dopo quattro anni e otto mesi di guerra.
[1] “Peppineddu, esci fuori”.
[2] “Piazzetta dove un tempo si radunava il mercatino degli ambulanti in via Del Redentore”.
[3] L’episodio è accaduto il 30 dicembre 1930 e viene ricordato nei seguenti testi:
– AA.VV. , L’antifascismo in Sardegna, Ed. Della Torre 1986, p. 50.
– Mario Corona, Ricordare non è peccato. 1938-1944 Storie e vicissitudini di un condannato politico, Ed. Dell’Erba, 2000, pp. 46-47.
– L. Berlinguer e A. Mattone, La Storia d’Italia – Le regioni dall’Unità a oggi – La Sardegna, Einaudi, 1998, pp. 692-693.
[4] “Trottola di legno con punta di ferro che si lanciava verso terra con un pezzo di spago”
[5] “Stavano quasi per arrestarlo”.
[6] “E guai a non andare”.
[7] “Stavamo passando nel rione Forraxu” (presso l’ex aeroporto).
[8] “A seguito della pulizia delle cunette”.
[9] “Vediamo se sei capace di rifare quello che hai fatto il giorno che è passata la sfilata”. “Emilietto scappò via di corsa”.
[10] “L’abbiamo fatta noi la sfilata andando a cercare tutta questa gente”.
[11] “Sollaini, chiudi tutto e vattene”.
[12] “Sembravamo in festa”.
[13] “Ho iniziato a salire sopra il barcarizzo, a momenti mi tremavano le gambe”.
[14] “Con tutti quei morti sopra”.
[15] “Efisio non ti trovavo e ho dovuto scoprire tutti i morti a uno a uno”.
[16] “Accennò a un sorriso”.
[17] “Facemmo gruppo tra noi”.
[18] “Venti centesimi di lira”.
[19] “Terminai tutti i soldi che avevo”.
[20] “C’era nell’aria un fetore di cadaveri”.
[21] “Arrivati a casa, busso al portone e niente”.
[22] “Carro trainato dal mulo”.
[23] “Con carro e mulo nuovo”.
[24] “Aveva preparato maccheroni con sugo e salciccia fresca”.
[25] “Stava corteggiando”.
[26] U.N.P.A., acronimo di Unione Nazionale Protezione Antiaerea, una organizzazione di protezione civile istituita il 31 agosto 1934. Fonte: Della Volpe Nicola, Difesa del territorio e protezione antiaerea (1915-1943). Ed. Stato Maggiore dell’Esercito, Roma, 1986 – Biblioteca Militare di Cagliari.
[27] “Vai, vai moccioso, se tu avessi visto quello che ho visto io”.
[28] Gran Pavese (più tecnicamente Gran Gala di Bandiere) è una serie di bandiere che le navi innalzano in caso di particolari solennità-
[29] “Se avessimo sparato così a La Maddalena, l’avremo spianata”.
[30] Località egiziana lungo il canale di Suez.
[31] “Eravamo troppo arrabbiati e dopo averli acchiappati, gli abbiamo dato una bella passata di colpi”.
[32] ”Ero nero come la pece”.
Condiviso da Gianfranco Vacca